martedì 11 febbraio 2025

 STORIA DELLE DONNE NELL'ETà MODERNA

8.1 Europa

 

8.1.1 Nobili e regine

In continuità con i secoli precedenti, anche durante l’Età moderna le donne videro la loro posizione subordinata a quella degli uomini. Solo in alcuni regioni del mondo, e in alcuni casi, come per l’aristocrazia e la classe media che si stava affermando, il loro status sociale ebbe miglioramenti. In Europa, all’interno di famiglie nobili o della ricca borghesia mercantile, alcune donne ebbero la possibilità di avere un’istruzione di base fino a ricoprire anche importanti ruoli nella cultura del tempo come le poetesse Vittoria Colonna e Gaspara Stampa o la pittrice Artemisia Gentileschi, cresciuta nella bottega del padre allievo di Caravaggio. Altre occuparono posizioni di assoluto rilievo politico governando principati e imperi. Tra queste, Isabella d’Este, Isabella di Castiglia, Elisabetta I di Inghilterra e, nel Settecento, Maria Teresa d’Austria e Caterina la Grande di Russia.

 

8.1.2 Borghesia e classi popolari

A coloro che appartenevano alla classe media si dava la possibilità di crescere in istituzioni religiose, sia cattoliche che protestanti, dove poter formarsi un bagaglio culturale ampio. Furono invece ancora rarissimi i casi di donne che poterono frequentare l’università e laurearsi. Altre donne riuscirono ad assumere, dopo aver sposato potenti mercanti, ruoli economici all’interno delle aziende dei mariti. Le donne della borghesia cittadina ebbero anche la possibilità di gestire la propria eredità e di avere un numero minore di figli, poiché la vita urbana richiedeva rispetto alla campagna una minore manodopera di bambini.

In campagna, invece, il numero di morti a causa del parto era ancora alto e nelle classi popolari si ricorreva spesso all’abbandono dei neonati. Questo accadeva per mancanza di possibilità economiche; i bambini venivano in seguito affidati ad istituti specializzati, gestiti dalla Chiesa, che se ne occupavano.

 

8.1.3 “Speriamo che non sia femmina”

La stessa nascita di una figlia femmina non era accolta con piacere. La famiglia, doveva infatti occuparsi di mettere da parte soldi e beni per la dote della figlia. La dote era necessaria ad una donna per potere essere presa come moglie da un uomo. Dove le condizioni economiche non permettevano di avere una buona dote per il futuro, le bambine, a otto o nove anni, venivano mandate a lavorare presso le case di persone benestanti. Il guadagno che ne scaturiva veniva dato al padre della bambina che lo depositava in un’apposita banca per ricavarne degli interessi. Una volta cresciuta la figlia, questa dote sarebbe passata direttamente dalle mani del padre a quelle del futuro marito.

 

8.1.4 Donne accusate di stregoneria

Tra il XVI e XVII secolo si diffonde, soprattutto in Europa centrale, la cosiddetta “caccia alle streghe” di cui furono vittime migliaia di donne e, in piccola parte, anche uomini. Le accuse andavano dall’aver rapito e ucciso bambini, avvelenato persone innocenti con miscugli di erbe fino all’aver partecipato al sabba, un rituale notturno dove, secondo le credenze popolari del tempo, partecipavano streghe e stregoni venerando il demonio. Le accuse erano chiaramente infondate e ad essere colpite erano soprattutto donne indifese, sole, anziane o vedove. Sottoposte ad atroci torture dai tribunali religiosi, queste donne spesso non sopravvivevano o erano costrette a confessare cose che non avevano mai fatto. A quel punto il tribunale dell’Inquisizione le condannava all’impiccagione o al rogo.

 

 

8.2 Colonie americane

 

8.2.1 Le donne presso i Nativi Americani

All’interno delle società che l’Occidente denomina “precolombiane”, poiché sviluppatesi nelle Americhe prima che vi giungessero gli europei, la donna ricopriva ruoli importanti, soprattutto legati alla casa e alla famiglia. Il suo ruolo era complementare a quello dell’uomo. Nel Nord America, oltre al lavoro manuale, a quello dedicato alla terra e alla sopravvivenza dei propri cari, le donne riuscirono anche a ricavarsi alcuni spazi in cui partecipare alle decisioni. Questo avveniva soprattutto quando si doveva scegliere tra affrontare una guerra o meno. Alcune popolazioni come i Cherokee, invece, consideravano le donne al pari degli uomini tanto che alcune di loro potevano rientrare nel Consiglio Generale, luogo dove si compivano le decisioni più importanti.

 

8.2.2 Pocahontas

Pocahontas (1595-1617) apparteneva a una tribù di Nativi Americani che vivevano nella Virginia. Quando in queste terre vi giunsero i coloni dall’Inghilterra, dopo un iniziale periodo di serena convivenza, iniziarono a nascere tensioni sempre crescenti. I Nativi, infatti, si sentivano minacciati dalla presenza degli europei riguardo al possesso delle proprie terre. Pocahontas, pur ancora giovanissima, riuscì a mediare tra la sua gente e gli Inglesi, prima salvando la vita a John Smith, uno dei capi coloni catturato dalla tribù, in seguito cercando di placare gli aspri conflitti tra le due parti. Dopo qualche anno si sposò con un colono inglese, John Rolfe, e da costui prese il nome di Rebecca Rolfe, dopo essersi battezzata. Questa unione consentì un lungo periodo di pacificazione tra il popolo di Pocahontas e i coloni inglesi.

Pocahontas e John Rolfe soggiornarono anche in Inghilterra. Qui la giovane donna si ammalò, proprio mentre era in procinto di ritornare in America col marito, e morì a 23 anni.

 

8.2.3 Donne europee e africane in Nord America

La prime donne europee giunsero sulla costa atlantica degli Stati Uniti tra il XVI e XVII secolo. Provenivano soprattutto da Inghilterra e Galles, ma anche da Scozia e Irlanda. Uno dei primi e duraturi insediamenti fu quello di Jamestown, nell’attuale Virginia. Qui arrivarono anche una ventina di prigionieri africani, tra cui una donna, considerati i primi schiavi del Nord America e l’inizio della storia afroamericana. Molte altre donne nubili inglesi furono mandate in Virginia per unirsi agli uomini e far crescere numericamente la colonia.

Col tempo le diverse colonie accolsero anche uomini e donne provenienti da Olanda, Germania e Svezia, mentre verso la fine del 1600 arrivò un flusso costante di schiavi africani dalle isole dei Caraibi.

 

8.2.4 Il ruolo nella società

La maggior parte dei coloni inglesi che giungevano in America erano di religione puritana, per questo portavano con sé i loro forti valori religiosi e la loro efficiente organizzazione sociale. Le donne puritane inglesi si occupavano principalmente della famiglia e della casa e seguivano regole molto restrittive; quelle olandesi e tedesche, invece, potevano aiutare i propri mariti nel lavoro (agricoltura e allevamento) e avevano possibilità di lasciare in eredità i beni acquisiti con il matrimonio.

La scolarizzazione per le fanciulle cominciò a diffondersi nella seconda metà del 1700 e non era obbligatoria. Secondo la cultura delle colonie per le donne era importante soltanto imparare a leggere per poter comprendere le Sacre Scritture, per questo anche dove non vi erano scuole a molte ragazze venivano insegnati rudimenti di lettura.

 

8.2.5 Schiave e streghe

Donne africane ridotte in schiavitù erano spesso vittime di violenza da parte dei loro padroni. In molti casi esse mettevano al mondo bambini che, per legge, dovevano seguire lo status della propria madre rimanendo, quindi, schiavi. Malgrado questa legge andasse contro i principi del diritto inglese che prevedevano che lo status di un figlio fosse lo stesso di quello del padre, era necessaria per rimuovere ogni responsabilità di uomini bianchi europei nei confronti di donne schiave. Elizabeth Key Grinstead fu la prima donna di colore a fare causa e a vincerla nel 1656 per vedere il suo bambino, avuto con un ricco possidente bianco, liberato dalla schiavitù.

Presso le comunità puritane, a fine 1600, vi furono diversi processi per stregoneria che portarono in diversi casi anche alla condanna a morte degli imputati. Questi ultimi erano soprattutto donne, vedove o anziane sole solitamente con relazioni critiche con i vicini che spesso erano i principali accusatori.

Il caso più eclatante riguarda il villaggio di Salem nel Massachusetts dove nel 1693 furono imprigionate e condannate per impiccagione 19 persone, 13 donne e 6 uomini.

 

8.2.6 Donne native in America Latina

I colonizzatori spagnoli e portoghesi introdussero le loro credenze religiose cattoliche nella vita delle donne indigene, così come quelli inglesi e olandesi introdussero la mentalità protestante. In entrambi i casi venne trasmesso un modello di obbedienza e subordinazione nei confronti dell’uomo. Anche gli uomini religiosi giunti nelle Americhe come missionari, pur avendo spesso atteggiamenti di profonda umanità verso i nativi, a differenza dei conquistadores, contribuirono a cambiare i loro costumi opponendosi con decisione all’adulterio, alla poligamia e alla nudità che erano, invece, tollerati in quelle regioni prima dell’arrivo degli europei e della loro cultura.

In alcuni casi, come ad esempio per gli Inca in Perù, l’integrazione con i colonizzatori fu in parte favorita dagli stessi indigeni attraverso il dono delle proprie donne agli Spagnoli come spose.

 

8.2.7 Donne spagnole

Gli Spagnoli avevano colonizzato diverse regioni americane nel XVI secolo. Quando molti abitanti dalla madrepatria iniziarono ad emigrare verso le colonie, tra essi vi erano anche numerose donne, spinte dall’idea di portare comportamenti morali nelle terre dei selvaggi e di trovare disponibilità di ricchezze.

La situazione sociale e politica nelle Americhe era, agli inizi, ancora molto poco organizzata. Da parte di alcune donne ci fu perciò il tentativo di arrivare a occupare posizioni che in Spagna non avrebbero mai potuto raggiungere. Coloro che vi riuscirono si presero cura dei possedimenti in carica ai propri mariti, sostituendoli nelle relazioni sociali, in caso di assenza o di morte. Altre contribuirono addirittura alle campagne militari, come Ines Suárez, che partecipò alla conquista spagnola di territori che oggi si trovano in Cile. Un altro nome da ricordare è quello di Beatriz de la Cueva che arrivò ad essere nominata governatrice del Guatemala, anche se solo per pochi giorni (morì a causa di un terribile terremoto nel 1541).

Infine, ci furono donne che ricoprirono ruoli di rilievo negli scambi commerciali o addirittura come esploratrici. È il caso di Isabel Barreto, unica ammiraglia del re di Spagna Filippo II che nel 1595 guidò spedizioni nell’immenso Pacifico alla ricerca di oro e pietre preziose.

 

8.2.8 Malinche

Malinche (1502-1529) era una giovane donna azteca di nobili origini. Quando i conquistadores spagnoli guidati da Hernan Cortès arrivarono in Messico, Malinche gli fu consegnata come schiava. Nei mesi della spedizione il suo ruolo però divenne fondamentale perché, per il fatto di conoscere entrambe le lingue, l’azteco e lo spagnolo, Cortés la utilizzò come interprete e come intermediaria tra gli Spagnoli e le tribù assoggettate e sottomesse all’Impero Azteco.

Molto probabilmente Malinche ebbe una funzione importante nel costituire alleanze tra i conquistadores e queste tribù. Pur meglio armati e forniti di cavalli, infatti, i conquistadores erano in numero di gran lunga inferiore rispetto ai guerrieri aztechi. Senza l’aiuto delle popolazioni sottomesse Hernan Cortés non avrebbe mai potuto assediare e devastare una città come Tenochtitlan e mettere fine ad un impero così potente come quello governato da Montezuma.

 

 

8.3 Cina e Giappone

 

8.3.1 Figlie di funzionari e contadine in Cina

Sotto i Ming la Cina raggiunse stabilità e potere politico a livello globale, con importanti spedizioni oceaniche (Zheng He), innovazioni e diffusione della cultura attraverso la stampa, molto prima che in Europa. La condizione femminile, però, non raggiunse lo stesso livello di sviluppo e civiltà.

Ad alcune donne, come ad esempio le figlie dei funzionari di governo, veniva data la possibilità di alfabetizzarsi a differenze di quelle la cui attività era legata alla terra. Queste ultime, però, malgrado le dure condizioni di lavoro, potevano usufruire di un reddito aggiuntivo versato dal governo come aiuto alle famiglie contadine bisognose.

Nei documenti risalenti al periodo Ming e Qing che ci sono pervenuti, quasi sempre il nome della donna non è riportato. Al suo posto troviamo la dicitura figlia di o moglie di, con il nome del padre o del marito.

 

8.3.2 Il concubinato

In Cina era anche diffuso da secoli il concubinato, cioè la possibilità per un uomo che poteva permettersene il lusso, di avere, oltre alla moglie, altre donne. Le concubine godevano di uno status inferiore rispetto alla moglie ufficiale, ma potevano comunque diventare madri e vedersi riconosciuti i propri figli. Questi bambini, però, oltre ad essere figli della propria madre (concubina) lo erano legalmente anche della moglie ufficiale.

Durante la Dinastia Qing se una moglie non riusciva ad avere figli in giovane età, il marito poteva rivolgersi ad una concubina.

Gli imperatori Ming potevano arrivare ad avere anche diecimila concubine, molte delle quali rapite dalle proprie abitazioni e portate nel Palazzo dove erano obbligate a seguire, in una gerarchia piramidale con a capo l’imperatrice, regole ferree e obbedienza.

 

8.3.3 Si diffonde la fasciatura dei piedi

Verso il periodo finale della Dinastia Ming cominciò a diffondersi la pratica della fasciatura dei piedi, prima riservata alle donne dell’aristocrazia, anche tra le famiglie dei contadini. I piedi femminili, fin dalla più tenera età, subivano una serie di strette fasciature che nel corso di 5 -10 anni portavano più volte le ossa a rompersi e a riformarsi in modo da impedirne la crescita. Era, infatti, diffusa la cultura che un piede piccolo fosse segno di grande bellezza. La pratica era molto lunga e dolorosa e, alla fine, deformava i piedi al punto che le donne non potevano più camminare normalmente. Questa menomazione impediva loro di allontanarsi dalla propria casa, come predicava la dottrina di Confucio. La famiglia del futuro marito apprezzava tale pratica considerandola prova di coraggio, sopportazione del dolore e sottomissione all’autorità maschile.

Con i piedi fasciati anche le donne di umili origini potevano ambire ad un matrimonio più nobile, ma nello stesso tempo rappresentavano anche una diminuzione della forza lavoro nei campi.

La tradizione della fasciatura dei piedi fu molto difficile da estirpare poiché si era radicata profondamente nella cultura cinese. I Qing ci provarono a vietarla, ma non ci riuscirono. Scomparve definitivamente soltanto nella prima metà del XX secolo.

 

8.3.4 Le vedove caste

La dottrina confuciana permetteva al marito vedevo di risposarsi, ma la donna che perdeva il marito doveva rimanergli fedele anche dopo la morte e occuparsi del padre o del suocero. Per questo veniva ritenuta una vedova rispettabile.

Il governo Ming diede molta importanza alle donne cinesi che, rimaste vedove, sceglievano di rimanere sole senza cercare un nuovo uomo. La castità di queste donne diventò, con la Dinastia Qing, una vera e propria virtù riconosciuta a livello istituzionale da tutta la società. Le vedove caste erano perciò considerate delle eroine, elevate a esempi da imitare. A loro vennero dedicati in questo periodo piccoli monumenti e santuari per mezzo dei quali esse venivano onorate con scritte commemorative dai membri delle loro stesse famiglie.

Le vedove che, al contrario, si risposavano vedevano la loro dote e le proprietà dei loro mariti confiscate dal governo.

 

8.3.5 Il ruolo della donna giapponese all’interno della famiglia

I secoli XVII-XIX furono caratterizzati dal dominio degli shogun Tokugawa che spostarono il loro centro di potere a Edo, l’antica Tokyo. Da qui instaurarono un regime di ordine e repressione in cui ognuno era tenuto a svolgere il proprio ruolo e il proprio dovere per lo Stato. Secondo i dettami del Neoconfucianesimo, come in Cina, fu, mantenuta una netta divisione tra il ruolo dell’uomo e quello della donna.

La condizione femminile era essenzialmente legata alla gestione della famiglia. Alle donne veniva trasmesso fin dalla tenera età l’idea precisa di sottostare ai maschi e diventare in futuro una buona moglie e una madre saggia. Per questo non veniva quasi mai concessa la possibilità di un’istruzione di base (se non, di solito, soltanto alle figlie e alle consorti dei samurai). Pur mantenendo l’obbedienza ai mariti, il matrimonio rimaneva quasi una scelta obbligata, perché era l’unica possibilità per le donne di potersi realizzare in età adulta. Inoltre, il governo incentivava il matrimonio come mezzo di stabilità sociale e come spinta per aumentare il tasso di natalità. Ma mentre per un uomo avere molti figli poteva significare onorabilità, per una donna voleva dire sacrificio del corpo e dipendenza totale dai doveri di madre e moglie.

 

8.3.6 Le donne nella società e le geishe

La donna era quindi collocata sotto l’uomo, il suo status era socialmente riconosciuto come inferiore. Ci sono diversi aspetti che lo confermano: spesso erano unite al proprio marito attraverso matrimoni combinati, pur sposandosi con uomini di status superiore al proprio non potevano accrescere i propri diritti e, nella vita coniugale, dovevano subire totalmente l’autorità del marito. Quest’ultimo, in casi estremi, aveva anche il diritto di uccidere la moglie se avesse avuto dubbi sulla sua condotta morale o non l’avesse ritenuta più in grado di gestire i doveri della famiglia.

Tra donne appartenenti a classi sociali diverse, così com’era divisa la società durante il Periodo Edo, vi erano possibilità e diritti differenti, ma tutte le donne giapponesi avevano in comune l’impossibilità di raggiungere lo status sociale di un uomo. Anche le mogli e le figlie dei samurai, ad esempio, pur avendo privilegi diversi da quelle dei contadini, non potevano usare l’istruzione ricevuta per svolgere ruoli politici.

Le geishe erano giovani donne educate alla musica, alla danza e all’arte in generale e la loro pratica aveva lo scopo di intrattenere gli uomini benestanti che ne facevano richiesta. Durante il Periodo Edo gli shogun Tokugawa legalizzarono la prostituzione aprendo all’interno delle grandi città, come Kyoto e Tokyo, quartieri specifici per questa funzione. Il ruolo delle geishe fu perciò in parte confuso con quello delle prostitute fino a quando non furono introdotte le Case da tè (ochaya) e le Case della geisha, luoghi cioè ben distinti dalle case di piacere e in cui le geishe avrebbero potuto continuare a svolgere il proprio lavoro. A meno che non scegliessero la via del monachesimo, in questi quartieri veniva consentito alle donne l’unica alternativa alla vita matrimoniale tradizionale costruita secondo il credo confuciano, ovvero di obbedienza del figlio verso il padre e della moglie verso il marito.

 

 

8.4 Imperi islamici

 

8.4.1 Libertà e restrizioni delle donne sotto i Safàvidi

L’Impero Safàvide (XVI-XVIII secolo) occupava grossomodo l’odierno Iran e la sua capitale era la splendida città di Isfahan. Molti viaggiatori occidentali che visitarono Isfahan vennero in contatto con l’aristocrazia dei Safàvidi e poterono raccontare della condizione femminile soprattutto all’interno di questa classe sociale. Al di là di questo ambiente, però, vi erano altre tipologie di donne, come quelle che abitavano al di fuori delle città, in comunità ancora tribali dedite al lavoro nei campi, o chi viveva in condizioni di schiavitù. Vi erano anche molte donne che partecipavano in prima linea alle attività produttive, soprattutto nei centri cittadini, occupandosi di attività tessili, artigianato e lavorazione di pregiati tappeti.

La vita delle donne sotto i Safàvidi vide alternarsi momenti di forte restrizione a periodi in cui si poteva godere di maggiore libertà. Ciò dipendeva dallo Scià che governava. Ad esempio sotto Shah Abbas I il Grande le donne potevano anche essere viste in pubblico e, in occasione di alcune ricorrenze, senza essere accompagnate da un uomo e senza indossare il caratteristico velo per coprirsi il viso. Normalmente, invece, le donne di ogni età, non potevano attraversare spazi pubblici se non in situazioni di emergenza.

 

8.4.2 Il matrimonio e il mecenatismo

Gli uomini appartenenti a uno status sociale più elevato potevano permettersi più mogli (poligamia), mentre quelli meno ricchi mettevano su un tipo di famiglia tradizionale, con moglie e figli. I matrimoni venivano regolarmente combinati da ufficiali governativi scegliendo persone tra loro compatibili come temperamento e condizione sociale. Veniva, invece, in tutti i modi rigettato il celibato poiché non permettendo la riproduzione andava, perciò, contro l’incremento della popolazione.

Anche se non visto di buon occhio, era consentito il divorzio sia agli uomini che alle donne, ma un marito che ripudiava la moglie era obbligato a restituirle la dote.

Molte donne dell’alta società safàvide furono anche importanti mecenati che con le loro donazioni consentirono la costruzione di palazzi ed edifici religiosi, oltre che una importante produzione di opere d’arte. Erano solitamente figlie e sorelle di uomini di corte che non si erano sposate ed erano rimaste devote agli uomini della propria famiglia.

 

8.4.3 Le donne ottomane e l’harem

All’interno della società ottomana le donne godevano di diritti e privilegi diversi a seconda della classe sociale di appartenenza o della religione. Quando si parla di donne ottomane spesso si pensa ad un luogo simbolico, molte volte citato e rappresentato anche al di fuori della cultura mediorientale: l’harem.

L’harem è stato descritto in modi molto diversi a seconda delle fonti, tanto che è difficile farsene un’idea precisa. Spesso queste fonti sono di viaggiatori occidentali che, non avendo permesso di osservare direttamente la vita all’interno di un harem, si basavano su racconti e descrizioni.

In origine si trattava, nella civiltà islamica, di una parte della casa riservata alle donne e ai bambini. Durante l’Impero Ottomano, da ambiente domestico l’harem si trasformò notevolmente indicando un luogo regale all’interno del Palazzo Topkapi, a Istanbul, dove il sultano relegava le sue mogli e concubine, gli eunuchi e i parenti di sesso femminile della sua famiglia. Escluse le donne della famiglia, la maggior parte delle persone dell’harem era costituito da schiavi non musulmani poiché il Corano proibiva di ridurre in schiavitù chi era di fede islamica. Alcune di queste schiave raggiunsero posizioni di potere e prestigio rendendo l’harem un’istituzione importante nella vita sociale e politica dell’Impero Ottomano.

Donne di alto rango, soprattutto tra il XVI e il XVII secolo, esercitarono il loro potere decisionale nella politica interna ed estera. Erano regine-madri o regine-consorti (queste ultime inizialmente erano schiave dell’harem del Palazzo) che si imposero con forte personalità nei confronti di sultani troppo giovani o inesperti. Per tale motivo questo periodo viene in alcuni casi ricordato come Sultanato delle donne.

 

8.4.4 Possibilità all’interno della società comune

La condizione femminile nell’Impero Ottomano consentiva un grado di libertà secondo la legge islamica che era considerato eccezionale per quei secoli. Le donne potevano possedere proprietà ed essere indipendenti economicamente o rivolgersi in autonomia alla giustizia per questioni legali, compresa la richiesta di divorzio. Il divorzio era una pratica molto comune in quanto gli Ottomani ritenevano che una relazione familiare problematica e infelice avrebbe avuto conseguenze sull’intera società. L’uomo poteva chiedere il divorzio senza rilasciare motivazioni e veniva risarcito dal punto di vista economico; al contrario, la donna doveva offrire valide motivazioni e, una volta divorziata, perdeva benefici e ricchezze ricevute dal marito.

Alle donne era consentito ricevere eredità e gestirle da sole, allo stesso modo potevano lasciare beni e ricchezze in eredità. Avevano la possibilità, inoltre, di fare donazioni per beneficenza (chiamate waqf, nella cultura islamica) che venivano utilizzate per i bisognosi, gli orfani e le vedove o per costruire scuole, biblioteche e moschee.

Nella vita quotidiana venivano offerte occasioni di socializzazione con altre donne, come matrimoni e fidanzamenti, o visite a bagni pubblici e cimiteri. La scelta del marito non era consentita, ma riservata alla madre della donna che stipulava un rapporto di matrimonio, qualora ci fosse stato consenso da entrambe le parti.

 

8.4.5 Donne musulmane e indù sotto i Moghul

I turco-mongoli Moghul, di religione islamica, conquistarono e governarono gran parte del subcontinente indiano tra il XVI e il XIX secolo. L’Islam era già penetrato in India nei secoli precedenti, ma con l’Impero Moghul si espanse ulteriormente entrando in contrasto con l’induismo, fede politeista praticata da molte popolazioni autoctone. Nonostante l’atteggiamento tollerante verso gli indù, la cultura islamica si impose come predominante e questo ebbe conseguenze anche sulla condizione femminile. Ma, sotto molti aspetti, le donne moghul godevano di maggiori diritti rispetto alle donne indù le quali dovevano sottostare alla rigida gerarchia delle caste (chi nasceva appartenente ad una casta non aveva possibilità di uscirne) e al crudele rituale del sati. Con questa parola si indicava una pratica funeraria in cui la vedova si suicidava nel rogo accanto quello della salma del marito, come atto di devozione verso costui. Diffusosi dal Medioevo il sati fu vietato per legge solo nel XIX dal governo coloniale inglese. Tuttavia anche nel Novecento e fino ad oggi, in rarissimi casi questa pratica è stata canora riscontrata in India e Nepal.

 

8.4.6 Alcuni diritti

Anche se musulmane, le donne moghul conservarono in parte le loro tradizioni turco-mongole e seminomadi per le quali si dovevano rispettare le donne anziane. La loro opinione era infatti molto influente, soprattutto nell’evitare bagni di sangue e violenza, come per la successione al trono. Quindi, anche se limitate su molti comportamenti e azioni (era ad esempio in uso la purdah, cioè il divieto agli uomini di guardare le donne costrette a coprirsi quasi completamente) la condizione femminile sotto i Moghul era meno dura di quella di altre società islamiche del tempo, come presso i Safàvidi, ad esempio.

Alle donne era consentito svolgere mansioni e mestieri anche se questo dipendeva dalla casta cui si apparteneva e dallo status sociale. Dalle raffigurazioni pittoriche si può dedurre che molte di esse erano impiegate come filatrici.

La legge islamica, la sharia, dava la possibilità di riceve anche una parte dell’eredità famigliare, ma non sempre questo diritto era rispettato. Ci sono documenti che attestano come, nel caso di eredità negata, la donna abbia potuto far ricorso in tribunale per vedersi riconoscere il diritto. A volte alle madri era anche concesso lasciare l’eredità vincolandola ad un’unica figlia. Questo per evitare che le figlie di altre mogli del marito (essendo consentita la poligamia) potessero impossessarsene.

 

8.4.7 Mumtaz Mahal

Bisogna, infine, ricordare che non tutte le donne nell’India Moghul erano analfabete, poiché sappiamo che alcune di esse furono infermiere, studiose e poetesse.

Molte donne della nobiltà moghul furono anche valenti consigliere a livello politico per i mariti. Tra loro la più celebre fu l’imperatrice Mumtaz Mahal, ricordata per la sua incredibile bellezza, tale da “far vergognare anche la luna”, ma anche per la sua attitudine alla pietà e alla grazia verso la povera gente, i malati e gli emarginati. Dopo la sua morte a soli 38 anni, il marito Shah Jahan nel 1632 fece costruire in sua memoria il grandioso Taj Mahal, ad Agra, straordinario esempio di architettura moghul e tutt’oggi uno dei monumenti più famosi e più visitati al mondo.

 

 

8.5 Africa

 

8.5.1 Società matrilineari

I termini uomo e donna nelle lingue bantu parlate in parte dell’Africa a sud del Sahara non ha lo stesso significato che nelle lingue occidentali. In queste lingue per indicare una persona di sesso femminile è necessario sapere se si è giunti ad alcune tappe fondamentali della vita come, ad esempio, la maternità, la vecchiaia, i riti di passaggio per entrare nell’età adulta o se ha ricevuto un’istruzione. In questo modo veniva a determinarsi il suo ruolo e la sua autorità all’interno dello spazio familiare e dell’intera comunità. Le categorie sociali femminili non godevano tutte della stessa importanza. Il ruolo di madre o nonna, di sorella e figlia erano superiori, ad esempio, al ruolo di moglie. 

Le società africane seguivano in gran parte la matrilinearità, cioè i figli ereditavano la posizione sociale e i beni materiali dalla madre, anziché dal padre. La famiglia è sempre stato il nucleo fondante dell’intera società e la donna, al suo interno, per il fatto di essere colei che mette al mondo i bambini e gestisce l’educazione e la casa, il membro più importante.

 

8.5.2 L’ influenza islamica

Dal 1500 la situazione politica, con guerre interne e tratta degli schiavi, fece accentrare maggiormente il potere nelle mani degli uomini, creando una struttura sociale in gran parte patrilineare. Anche l’influenza dell’Islam, prima, e dell’Europa, dopo, contribuirono a far decadere l’autorità femminile. Per secoli i mercanti islamici ebbero contatti con le popolazioni africane, soprattutto nel nord, lungo le Rotte Transahariane e sulla costa sud-orientale. Imperi africani, come quello del Mali e quello Songhai, o le città-stato swahili sull’Oceano Indiano si erano col tempo convertiti alla religione musulmana. Le donne africane non ebbero rilevanti svantaggi nel convertirsi all’Islam: era una religione monoteista come molte all’interno dell’Africa e inoltre, come dote quando si sposavano, ricevevano dal futuro marito gioielli, oro e denaro. Questa dote, nella tradizione matrilineare africana prevedeva la suddivisione fra tutti i membri della famiglia, lasciando poco e niente alla sposa, mentre con l’arrivo dell’Islam la donna poteva scegliere di tenere tutta la dote con sé.

 

8.5.3 L’influenza europea

La tratta degli schiavi perpetrata per secoli dagli europei cristiani (XVI-XIX secolo) creò terrore nella popolazione africana. Gli schiavi giunti nelle piantagioni dei Caraibi o dell’America Latina venivano sfruttati fino a morire. Quando il prezzo degli schiavi provenienti dall’Africa si alzò, fu consentito loro di riprodursi. In questo modo le donne avevano più possibilità di riposarsi rispetto agli uomini. Ma le schiave erano spesso anche vittime di violenza da parte dei loro proprietari e i bambini, poiché partoriti da donne schiave, erano considerati schiavi essi stessi, anche se il padre era bianco europeo. In questo unico caso veniva rispettata la matrilinearità.

Specialmente in Brasile, a Cuba e ad Haiti, le donne riuscirono a mantenere vive le religioni tradizionali africane nella fusione con i culti cristiani (sincretismo) e ponendosi esse stesse come uniche sacerdotesse attraverso rituali, ritmi e danze. In queste religioni si adoravano divinità e spiriti che gli schiavi utilizzavano per senso di protezione e unità tra loro. In Brasile si sviluppò il candomblé, a Cuba la santeria e ad Haiti il vudù.

 

8.5.4 La tratta degli schiavi

L’impatto della tratta degli schiavi creò conseguenze in Africa occidentale anche sulla condizione delle donne. Vennero a formarsi gruppi diversi a seconda della possibilità che si aveva di possedere schiavi. Vi erano, perciò, donne proprietarie di schiavi che, per questo, aumentavano le proprie ricchezze, donne comuni senza schiavi e le stesse schiave. Alcune donne africane (specialmente in Senegal), chiamate Signares, diventarono potenti mercanti di schiavi e le principali intermediarie con gli europei. La ricchezza derivante dal potere economico fece accrescere anche il loro prestigio, tanto che molte di esse contrassero matrimoni con i trafficanti bianchi di schiavi.

Dopo il XVIII secolo, con la Rivoluzione industriale la famiglia nucleare tradizionale, basata sul padre e sul suo cognome, divenne l’unica accettata dalle società occidentali. Questo modello, esportato con il colonialismo dell’Ottocento, si impose in diverse zone dell’Africa sostituendo il modello matrilineare e la famiglia come entità di cui fanno parte i vivi, ma anche gli antenati e i componenti non ancora nati.

 

8.5.5 Nzinga, la regina che non si piegò agli europei

Nzinga fu una donna di origini nobili che nel XVII secolo regnò su alcuni territori nell’attuale Angola. L’Africa sud-occidentale era, a quell’epoca, una regione geografica molto ambita dai Portoghesi soprattutto per il commercio di schiavi attraverso l’Atlantico.

Allo stesso modo delle coeve regine europee Elisabetta I d’Inghilterra e Cristina di Svezia, Nzinga regnò da sola, senza consorte e senza figli. Convertitasi al cristianesimo, riuscì a intrattenere importanti negoziati con gli europei e ad evitare che il suo popolo subisse la schiavitù, come negli stessi anni accadeva per le zone vicine al proprio regno.

Il suo carattere forte viene ricordato da alcuni aneddoti tramandatisi nel tempo di cui il più famoso è quello che la vide rifiutarsi di sedersi per terra, durante le trattative con i Portoghesi. Questi ultimi usavano sedie, ma non permettevano agli africani con i quali stipulavano contratti di fare altrettanto. La superiorità europea sulla gente d’Africa doveva essere chiara anche nella posizione dei rispettivi corpi. La tradizione vuole che Nzinga non lo fece: chiese ad una sua serva di piegarsi sulle mani e sulle ginocchia e si sedette sulla sua schiena. In questo modo stava comunicando ai Portoghesi di non sentirsi affatto inferiore ad essi.

 

 

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