8.1 Europa
8.1.1
Nobili e regine
In
continuità con i secoli precedenti, anche durante l’Età moderna le donne
videro la loro posizione subordinata a quella degli uomini. Solo in alcuni
regioni del mondo, e in alcuni casi, come per l’aristocrazia e la classe
media che si stava affermando, il loro status sociale ebbe miglioramenti. In
Europa, all’interno di famiglie nobili o della ricca borghesia mercantile,
alcune donne ebbero la possibilità di avere un’istruzione di base fino a
ricoprire anche importanti ruoli nella cultura del tempo come le poetesse
Vittoria Colonna e Gaspara Stampa o la pittrice Artemisia Gentileschi,
cresciuta nella bottega del padre allievo di Caravaggio. Altre occuparono
posizioni di assoluto rilievo politico governando principati e imperi. Tra
queste, Isabella d’Este, Isabella di Castiglia, Elisabetta I di Inghilterra
e, nel Settecento, Maria Teresa d’Austria e Caterina la Grande di Russia.
8.1.2
Borghesia e classi popolari
A
coloro che appartenevano alla classe media si dava la possibilità di crescere
in istituzioni religiose, sia cattoliche che protestanti, dove poter formarsi
un bagaglio culturale ampio. Furono invece ancora rarissimi i casi di donne
che poterono frequentare l’università e laurearsi. Altre donne riuscirono ad
assumere, dopo aver sposato potenti mercanti, ruoli economici all’interno
delle aziende dei mariti. Le donne della borghesia cittadina ebbero anche la
possibilità di gestire la propria eredità e di avere un numero minore di
figli, poiché la vita urbana richiedeva rispetto alla campagna una minore
manodopera di bambini.
In
campagna, invece, il numero di morti a causa del parto era ancora alto e
nelle classi popolari si ricorreva spesso all’abbandono dei neonati. Questo
accadeva per mancanza di possibilità economiche; i bambini venivano in
seguito affidati ad istituti specializzati, gestiti dalla Chiesa, che se ne
occupavano.
8.1.3
“Speriamo che non sia femmina”
La
stessa nascita di una figlia femmina non era accolta con piacere. La
famiglia, doveva infatti occuparsi di mettere da parte soldi e beni per la
dote della figlia. La dote era necessaria ad una donna per potere essere
presa come moglie da un uomo. Dove le condizioni economiche non permettevano
di avere una buona dote per il futuro, le bambine, a otto o nove anni,
venivano mandate a lavorare presso le case di persone benestanti. Il guadagno
che ne scaturiva veniva dato al padre della bambina che lo depositava in
un’apposita banca per ricavarne degli interessi. Una volta cresciuta la
figlia, questa dote sarebbe passata direttamente dalle mani del padre a
quelle del futuro marito.
8.1.4
Donne accusate di stregoneria
Tra
il XVI e XVII secolo si diffonde, soprattutto in Europa centrale, la
cosiddetta “caccia alle streghe” di cui furono vittime migliaia di donne e,
in piccola parte, anche uomini. Le accuse andavano dall’aver rapito e ucciso
bambini, avvelenato persone innocenti con miscugli di erbe fino all’aver
partecipato al sabba, un rituale notturno dove, secondo le credenze popolari
del tempo, partecipavano streghe e stregoni venerando il demonio. Le accuse
erano chiaramente infondate e ad essere colpite erano soprattutto donne
indifese, sole, anziane o vedove. Sottoposte ad atroci torture dai tribunali
religiosi, queste donne spesso non sopravvivevano o erano costrette a
confessare cose che non avevano mai fatto. A quel punto il tribunale dell’Inquisizione
le condannava all’impiccagione o al rogo.
8.2 Colonie americane
8.2.1
Le donne presso i Nativi Americani
All’interno
delle società che l’Occidente denomina “precolombiane”, poiché sviluppatesi
nelle Americhe prima che vi giungessero gli europei, la donna ricopriva ruoli
importanti, soprattutto legati alla casa e alla famiglia. Il suo ruolo era
complementare a quello dell’uomo. Nel Nord America, oltre al lavoro manuale,
a quello dedicato alla terra e alla sopravvivenza dei propri cari, le donne
riuscirono anche a ricavarsi alcuni spazi in cui partecipare alle decisioni.
Questo avveniva soprattutto quando si doveva scegliere tra affrontare una
guerra o meno. Alcune popolazioni come i Cherokee, invece, consideravano le
donne al pari degli uomini tanto che alcune di loro potevano rientrare nel
Consiglio Generale, luogo dove si compivano le decisioni più importanti.
8.2.2
Pocahontas
Pocahontas
(1595-1617) apparteneva a una tribù di Nativi Americani che vivevano nella
Virginia. Quando in queste terre vi giunsero i coloni dall’Inghilterra, dopo
un iniziale periodo di serena convivenza, iniziarono a nascere tensioni
sempre crescenti. I Nativi, infatti, si sentivano minacciati dalla presenza
degli europei riguardo al possesso delle proprie terre. Pocahontas, pur
ancora giovanissima, riuscì a mediare tra la sua gente e gli Inglesi, prima
salvando la vita a John Smith, uno dei capi coloni catturato dalla tribù, in
seguito cercando di placare gli aspri conflitti tra le due parti. Dopo
qualche anno si sposò con un colono inglese, John Rolfe, e da costui prese il
nome di Rebecca Rolfe, dopo essersi battezzata. Questa unione consentì un
lungo periodo di pacificazione tra il popolo di Pocahontas e i coloni
inglesi.
Pocahontas
e John Rolfe soggiornarono anche in Inghilterra. Qui la giovane donna si
ammalò, proprio mentre era in procinto di ritornare in America col marito, e
morì a 23 anni.
8.2.3
Donne europee e africane in Nord America
La
prime donne europee giunsero sulla costa atlantica degli Stati Uniti tra il
XVI e XVII secolo. Provenivano soprattutto da Inghilterra e Galles, ma anche
da Scozia e Irlanda. Uno dei primi e duraturi insediamenti fu quello di
Jamestown, nell’attuale Virginia. Qui arrivarono anche una ventina di
prigionieri africani, tra cui una donna, considerati i primi schiavi del Nord
America e l’inizio della storia afroamericana. Molte altre donne nubili
inglesi furono mandate in Virginia per unirsi agli uomini e far crescere numericamente
la colonia.
Col
tempo le diverse colonie accolsero anche uomini e donne provenienti da
Olanda, Germania e Svezia, mentre verso la fine del 1600 arrivò un flusso
costante di schiavi africani dalle isole dei Caraibi.
8.2.4
Il ruolo nella società
La
maggior parte dei coloni inglesi che giungevano in America erano di religione
puritana, per questo portavano con sé i loro forti valori religiosi e la loro
efficiente organizzazione sociale. Le donne puritane inglesi si occupavano
principalmente della famiglia e della casa e seguivano regole molto
restrittive; quelle olandesi e tedesche, invece, potevano aiutare i propri
mariti nel lavoro (agricoltura e allevamento) e avevano possibilità di
lasciare in eredità i beni acquisiti con il matrimonio.
La
scolarizzazione per le fanciulle cominciò a diffondersi nella seconda metà
del 1700 e non era obbligatoria. Secondo la cultura delle colonie per le
donne era importante soltanto imparare a leggere per poter comprendere le
Sacre Scritture, per questo anche dove non vi erano scuole a molte ragazze
venivano insegnati rudimenti di lettura.
8.2.5
Schiave e streghe
Donne
africane ridotte in schiavitù erano spesso vittime di violenza da parte dei
loro padroni. In molti casi esse mettevano al mondo bambini che, per legge,
dovevano seguire lo status della propria madre rimanendo, quindi, schiavi.
Malgrado questa legge andasse contro i principi del diritto inglese che
prevedevano che lo status di un figlio fosse lo stesso di quello del padre,
era necessaria per rimuovere ogni responsabilità di uomini bianchi europei
nei confronti di donne schiave. Elizabeth Key Grinstead fu la prima donna di
colore a fare causa e a vincerla nel 1656 per vedere il suo bambino, avuto
con un ricco possidente bianco, liberato dalla schiavitù.
Presso
le comunità puritane, a fine 1600, vi furono diversi processi per stregoneria
che portarono in diversi casi anche alla condanna a morte degli imputati.
Questi ultimi erano soprattutto donne, vedove o anziane sole solitamente con
relazioni critiche con i vicini che spesso erano i principali accusatori.
Il
caso più eclatante riguarda il villaggio di Salem nel Massachusetts dove nel
1693 furono imprigionate e condannate per impiccagione 19 persone, 13 donne e
6 uomini.
8.2.6
Donne native in America Latina
I
colonizzatori spagnoli e portoghesi introdussero le loro credenze religiose
cattoliche nella vita delle donne indigene, così come quelli inglesi e
olandesi introdussero la mentalità protestante. In entrambi i casi venne
trasmesso un modello di obbedienza e subordinazione nei confronti dell’uomo.
Anche gli uomini religiosi giunti nelle Americhe come missionari, pur avendo
spesso atteggiamenti di profonda umanità verso i nativi, a differenza dei
conquistadores, contribuirono a cambiare i loro costumi opponendosi con
decisione all’adulterio, alla poligamia e alla nudità che erano, invece,
tollerati in quelle regioni prima dell’arrivo degli europei e della loro
cultura.
In
alcuni casi, come ad esempio per gli Inca in Perù, l’integrazione con i
colonizzatori fu in parte favorita dagli stessi indigeni attraverso il dono
delle proprie donne agli Spagnoli come spose.
8.2.7
Donne spagnole
Gli
Spagnoli avevano colonizzato diverse regioni americane nel XVI secolo. Quando
molti abitanti dalla madrepatria iniziarono ad emigrare verso le colonie, tra
essi vi erano anche numerose donne, spinte dall’idea di portare comportamenti
morali nelle terre dei selvaggi e di trovare disponibilità di ricchezze.
La
situazione sociale e politica nelle Americhe era, agli inizi, ancora molto
poco organizzata. Da parte di alcune donne ci fu perciò il tentativo di
arrivare a occupare posizioni che in Spagna non avrebbero mai potuto
raggiungere. Coloro che vi riuscirono si presero cura dei possedimenti in
carica ai propri mariti, sostituendoli nelle relazioni sociali, in caso di
assenza o di morte. Altre contribuirono addirittura alle campagne militari,
come Ines Suárez, che partecipò alla conquista spagnola di territori che oggi
si trovano in Cile. Un altro nome da ricordare è quello di Beatriz de la
Cueva che arrivò ad essere nominata governatrice del Guatemala, anche se solo
per pochi giorni (morì a causa di un terribile terremoto nel 1541).
Infine,
ci furono donne che ricoprirono ruoli di rilievo negli scambi commerciali o
addirittura come esploratrici. È il caso di Isabel Barreto, unica ammiraglia
del re di Spagna Filippo II che nel 1595 guidò spedizioni nell’immenso
Pacifico alla ricerca di oro e pietre preziose.
8.2.8
Malinche
Malinche
(1502-1529) era una giovane donna azteca di nobili origini. Quando i
conquistadores spagnoli guidati da Hernan Cortès arrivarono in Messico,
Malinche gli fu consegnata come schiava. Nei mesi della spedizione il suo
ruolo però divenne fondamentale perché, per il fatto di conoscere entrambe le
lingue, l’azteco e lo spagnolo, Cortés la utilizzò come interprete e come
intermediaria tra gli Spagnoli e le tribù assoggettate e sottomesse
all’Impero Azteco.
Molto
probabilmente Malinche ebbe una funzione importante nel costituire alleanze
tra i conquistadores e queste tribù. Pur meglio armati e forniti di cavalli,
infatti, i conquistadores erano in numero di gran lunga inferiore rispetto ai
guerrieri aztechi. Senza l’aiuto delle popolazioni sottomesse Hernan Cortés
non avrebbe mai potuto assediare e devastare una città come Tenochtitlan e
mettere fine ad un impero così potente come quello governato da Montezuma.
8.3 Cina e Giappone
8.3.1
Figlie di funzionari e contadine in Cina
Sotto
i Ming la Cina raggiunse stabilità e potere politico a livello globale, con
importanti spedizioni oceaniche (Zheng He), innovazioni e diffusione della
cultura attraverso la stampa, molto prima che in Europa. La condizione
femminile, però, non raggiunse lo stesso livello di sviluppo e civiltà.
Ad
alcune donne, come ad esempio le figlie dei funzionari di governo, veniva
data la possibilità di alfabetizzarsi a differenze di quelle la cui attività
era legata alla terra. Queste ultime, però, malgrado le dure condizioni di
lavoro, potevano usufruire di un reddito aggiuntivo versato dal governo come
aiuto alle famiglie contadine bisognose.
Nei
documenti risalenti al periodo Ming e Qing che ci sono pervenuti, quasi
sempre il nome della donna non è riportato. Al suo posto troviamo la dicitura
figlia di o moglie di, con il nome del padre o del marito.
8.3.2
Il concubinato
In
Cina era anche diffuso da secoli il concubinato, cioè la possibilità per un
uomo che poteva permettersene il lusso, di avere, oltre alla moglie, altre
donne. Le concubine godevano di uno status inferiore rispetto alla moglie
ufficiale, ma potevano comunque diventare madri e vedersi riconosciuti i
propri figli. Questi bambini, però, oltre ad essere figli della propria madre
(concubina) lo erano legalmente anche della moglie ufficiale.
Durante
la Dinastia Qing se una moglie non riusciva ad avere figli in giovane età, il
marito poteva rivolgersi ad una concubina.
Gli
imperatori Ming potevano arrivare ad avere anche diecimila concubine, molte
delle quali rapite dalle proprie abitazioni e portate nel Palazzo dove erano
obbligate a seguire, in una gerarchia piramidale con a capo l’imperatrice,
regole ferree e obbedienza.
8.3.3
Si diffonde la fasciatura dei piedi
Verso
il periodo finale della Dinastia Ming cominciò a diffondersi la pratica della
fasciatura dei piedi, prima
riservata alle donne dell’aristocrazia, anche tra le famiglie dei contadini.
I piedi femminili, fin dalla più tenera età, subivano una serie di strette
fasciature che nel corso di 5 -10 anni portavano più volte le ossa a rompersi
e a riformarsi in modo da impedirne la crescita. Era, infatti, diffusa la
cultura che un piede piccolo fosse segno di grande bellezza. La pratica era
molto lunga e dolorosa e, alla fine, deformava i piedi al punto che le donne
non potevano più camminare normalmente. Questa menomazione impediva loro di
allontanarsi dalla propria casa, come predicava la dottrina di Confucio. La
famiglia del futuro marito apprezzava tale pratica considerandola prova di
coraggio, sopportazione del dolore e sottomissione all’autorità maschile.
Con
i piedi fasciati anche le donne di umili origini potevano ambire ad un
matrimonio più nobile, ma nello stesso tempo rappresentavano anche una
diminuzione della forza lavoro nei campi.
La
tradizione della fasciatura dei piedi fu molto difficile da estirpare poiché
si era radicata profondamente nella cultura cinese. I Qing ci provarono a
vietarla, ma non ci riuscirono. Scomparve definitivamente soltanto nella
prima metà del XX secolo.
8.3.4
Le vedove caste
La
dottrina confuciana permetteva al marito vedevo di risposarsi, ma la donna
che perdeva il marito doveva rimanergli fedele anche dopo la morte e
occuparsi del padre o del suocero. Per questo veniva ritenuta una vedova
rispettabile.
Il
governo Ming diede molta importanza alle donne cinesi che, rimaste vedove,
sceglievano di rimanere sole senza cercare un nuovo uomo. La castità di
queste donne diventò, con la Dinastia Qing, una vera e propria virtù
riconosciuta a livello istituzionale da tutta la società. Le vedove caste
erano perciò considerate delle eroine, elevate a esempi da imitare. A loro
vennero dedicati in questo periodo piccoli monumenti e santuari per mezzo dei
quali esse venivano onorate con scritte commemorative dai membri delle loro
stesse famiglie.
Le
vedove che, al contrario, si risposavano vedevano la loro dote e le proprietà
dei loro mariti confiscate dal governo.
8.3.5
Il ruolo della donna giapponese all’interno della famiglia
I
secoli XVII-XIX furono caratterizzati dal dominio degli shogun Tokugawa che
spostarono il loro centro di potere a Edo, l’antica Tokyo. Da qui
instaurarono un regime di ordine e repressione in cui ognuno era tenuto a
svolgere il proprio ruolo e il proprio dovere per lo Stato. Secondo i dettami
del Neoconfucianesimo, come in Cina, fu, mantenuta una netta divisione tra il
ruolo dell’uomo e quello della donna.
La
condizione femminile era essenzialmente legata alla gestione della famiglia.
Alle donne veniva trasmesso fin dalla tenera età l’idea precisa di sottostare
ai maschi e diventare in futuro una buona moglie e una madre saggia. Per
questo non veniva quasi mai concessa la possibilità di un’istruzione di base
(se non, di solito, soltanto alle figlie e alle consorti dei samurai). Pur
mantenendo l’obbedienza ai mariti, il matrimonio rimaneva quasi una scelta
obbligata, perché era l’unica possibilità per le donne di potersi realizzare
in età adulta. Inoltre, il governo incentivava il matrimonio come mezzo di
stabilità sociale e come spinta per aumentare il tasso di natalità. Ma mentre
per un uomo avere molti figli poteva significare onorabilità, per una donna
voleva dire sacrificio del corpo e dipendenza totale dai doveri di madre e
moglie.
8.3.6
Le donne nella società e le geishe
La
donna era quindi collocata sotto l’uomo, il suo status era socialmente
riconosciuto come inferiore. Ci sono diversi aspetti che lo confermano:
spesso erano unite al proprio marito attraverso matrimoni combinati, pur
sposandosi con uomini di status superiore al proprio non potevano accrescere
i propri diritti e, nella vita coniugale, dovevano subire totalmente
l’autorità del marito. Quest’ultimo, in casi estremi, aveva anche il diritto
di uccidere la moglie se avesse avuto dubbi sulla sua condotta morale o non
l’avesse ritenuta più in grado di gestire i doveri della famiglia.
Tra
donne appartenenti a classi sociali diverse, così com’era divisa la società
durante il Periodo Edo, vi erano possibilità e diritti differenti, ma tutte
le donne giapponesi avevano in comune l’impossibilità di raggiungere lo
status sociale di un uomo. Anche le mogli e le figlie dei samurai, ad esempio,
pur avendo privilegi diversi da quelle dei contadini, non potevano usare
l’istruzione ricevuta per svolgere ruoli politici.
Le
geishe erano giovani donne educate alla musica, alla danza e all’arte in
generale e la loro pratica aveva lo scopo di intrattenere gli uomini
benestanti che ne facevano richiesta. Durante il Periodo Edo gli shogun
Tokugawa legalizzarono la prostituzione aprendo all’interno delle grandi
città, come Kyoto e Tokyo, quartieri specifici per questa funzione. Il ruolo
delle geishe fu perciò in parte confuso con quello delle prostitute fino a
quando non furono introdotte le Case da tè (ochaya) e le Case della geisha, luoghi cioè ben distinti dalle
case di piacere e in cui le geishe avrebbero potuto continuare a svolgere il
proprio lavoro. A meno che non scegliessero la via del monachesimo, in questi
quartieri veniva consentito alle donne l’unica alternativa alla vita
matrimoniale tradizionale costruita secondo il credo confuciano, ovvero di
obbedienza del figlio verso il padre e della moglie verso il marito.
8.4 Imperi islamici
8.4.1
Libertà e restrizioni delle donne sotto i Safàvidi
L’Impero
Safàvide (XVI-XVIII secolo) occupava grossomodo l’odierno Iran e la sua
capitale era la splendida città di Isfahan. Molti viaggiatori occidentali che
visitarono Isfahan vennero in contatto con l’aristocrazia dei Safàvidi e
poterono raccontare della condizione femminile soprattutto all’interno di
questa classe sociale. Al di là di questo ambiente, però, vi erano altre
tipologie di donne, come quelle che abitavano al di fuori delle città, in
comunità ancora tribali dedite al lavoro nei campi, o chi viveva in
condizioni di schiavitù. Vi erano anche molte donne che partecipavano in
prima linea alle attività produttive, soprattutto nei centri cittadini,
occupandosi di attività tessili, artigianato e lavorazione di pregiati
tappeti.
La
vita delle donne sotto i Safàvidi vide alternarsi momenti di forte
restrizione a periodi in cui si poteva godere di maggiore libertà. Ciò
dipendeva dallo Scià che governava. Ad esempio sotto Shah Abbas I il Grande
le donne potevano anche essere viste in pubblico e, in occasione di alcune
ricorrenze, senza essere accompagnate da un uomo e senza indossare il
caratteristico velo per coprirsi il viso. Normalmente, invece, le donne di
ogni età, non potevano attraversare spazi pubblici se non in situazioni di emergenza.
8.4.2
Il matrimonio e il mecenatismo
Gli
uomini appartenenti a uno status sociale più elevato potevano permettersi più
mogli (poligamia), mentre quelli meno ricchi mettevano su un tipo di famiglia
tradizionale, con moglie e figli. I matrimoni venivano regolarmente combinati
da ufficiali governativi scegliendo persone tra loro compatibili come
temperamento e condizione sociale. Veniva, invece, in tutti i modi rigettato
il celibato poiché non permettendo la riproduzione andava, perciò, contro
l’incremento della popolazione.
Anche
se non visto di buon occhio, era consentito il divorzio sia agli uomini che
alle donne, ma un marito che ripudiava la moglie era obbligato a restituirle
la dote.
Molte
donne dell’alta società safàvide furono anche importanti mecenati che con le
loro donazioni consentirono la costruzione di palazzi ed edifici religiosi,
oltre che una importante produzione di opere d’arte. Erano solitamente figlie
e sorelle di uomini di corte che non si erano sposate ed erano rimaste devote
agli uomini della propria famiglia.
8.4.3
Le donne ottomane e l’harem
All’interno
della società ottomana le donne godevano di diritti e privilegi diversi a
seconda della classe sociale di appartenenza o della religione. Quando si
parla di donne ottomane spesso si pensa ad un luogo simbolico, molte volte
citato e rappresentato anche al di fuori della cultura mediorientale:
l’harem.
L’harem
è stato descritto in modi molto diversi a seconda delle fonti, tanto che è
difficile farsene un’idea precisa. Spesso queste fonti sono di viaggiatori
occidentali che, non avendo permesso di osservare direttamente la vita
all’interno di un harem, si basavano su racconti e descrizioni.
In
origine si trattava, nella civiltà islamica, di una parte della casa
riservata alle donne e ai bambini. Durante l’Impero Ottomano, da ambiente
domestico l’harem si trasformò notevolmente indicando un luogo regale
all’interno del Palazzo Topkapi, a Istanbul, dove il sultano relegava le sue
mogli e concubine, gli eunuchi e i parenti di sesso femminile della sua
famiglia. Escluse le donne della famiglia, la maggior parte delle persone
dell’harem era costituito da schiavi non musulmani poiché il Corano proibiva
di ridurre in schiavitù chi era di fede islamica. Alcune di queste schiave
raggiunsero posizioni di potere e prestigio rendendo l’harem un’istituzione
importante nella vita sociale e politica dell’Impero Ottomano.
Donne
di alto rango, soprattutto tra il XVI e il XVII secolo, esercitarono il loro
potere decisionale nella politica interna ed estera. Erano regine-madri o
regine-consorti (queste ultime inizialmente erano schiave dell’harem del
Palazzo) che si imposero con forte personalità nei confronti di sultani
troppo giovani o inesperti. Per tale motivo questo periodo viene in alcuni
casi ricordato come Sultanato delle donne.
8.4.4
Possibilità all’interno della società comune
La
condizione femminile nell’Impero Ottomano consentiva un grado di libertà
secondo la legge islamica che era considerato eccezionale per quei secoli. Le
donne potevano possedere proprietà ed essere indipendenti economicamente o
rivolgersi in autonomia alla giustizia per questioni legali, compresa la
richiesta di divorzio. Il divorzio era una pratica molto comune in quanto gli
Ottomani ritenevano che una relazione familiare problematica e infelice
avrebbe avuto conseguenze sull’intera società. L’uomo poteva chiedere il
divorzio senza rilasciare motivazioni e veniva risarcito dal punto di vista
economico; al contrario, la donna doveva offrire valide motivazioni e, una
volta divorziata, perdeva benefici e ricchezze ricevute dal marito.
Alle
donne era consentito ricevere eredità e gestirle da sole, allo stesso modo
potevano lasciare beni e ricchezze in eredità. Avevano la possibilità,
inoltre, di fare donazioni per beneficenza (chiamate waqf, nella cultura islamica) che venivano utilizzate per i
bisognosi, gli orfani e le vedove o per costruire scuole, biblioteche e
moschee.
Nella
vita quotidiana venivano offerte occasioni di socializzazione con altre
donne, come matrimoni e fidanzamenti, o visite a bagni pubblici e cimiteri.
La scelta del marito non era consentita, ma riservata alla madre della donna
che stipulava un rapporto di matrimonio, qualora ci fosse stato consenso da
entrambe le parti.
8.4.5
Donne musulmane e indù sotto i Moghul
I
turco-mongoli Moghul, di religione islamica, conquistarono e governarono gran
parte del subcontinente indiano tra il XVI e il XIX secolo. L’Islam era già
penetrato in India nei secoli precedenti, ma con l’Impero Moghul si espanse
ulteriormente entrando in contrasto con l’induismo, fede politeista praticata
da molte popolazioni autoctone. Nonostante l’atteggiamento tollerante verso
gli indù, la cultura islamica si impose come predominante e questo ebbe
conseguenze anche sulla condizione femminile. Ma, sotto molti aspetti, le
donne moghul godevano di maggiori diritti rispetto alle donne indù le quali
dovevano sottostare alla rigida gerarchia delle caste (chi nasceva
appartenente ad una casta non aveva possibilità di uscirne) e al crudele
rituale del sati. Con questa parola
si indicava una pratica funeraria in cui la vedova si suicidava nel rogo
accanto quello della salma del marito, come atto di devozione verso costui.
Diffusosi dal Medioevo il sati fu
vietato per legge solo nel XIX dal governo coloniale inglese. Tuttavia anche
nel Novecento e fino ad oggi, in rarissimi casi questa pratica è stata canora
riscontrata in India e Nepal.
8.4.6
Alcuni diritti
Anche
se musulmane, le donne moghul conservarono in parte le loro tradizioni
turco-mongole e seminomadi per le quali si dovevano rispettare le donne
anziane. La loro opinione era infatti molto influente, soprattutto
nell’evitare bagni di sangue e violenza, come per la successione al trono.
Quindi, anche se limitate su molti comportamenti e azioni (era ad esempio in
uso la purdah, cioè il divieto agli
uomini di guardare le donne costrette a coprirsi quasi completamente) la
condizione femminile sotto i Moghul era meno dura di quella di altre società
islamiche del tempo, come presso i Safàvidi, ad esempio.
Alle
donne era consentito svolgere mansioni e mestieri anche se questo dipendeva
dalla casta cui si apparteneva e dallo status sociale. Dalle raffigurazioni
pittoriche si può dedurre che molte di esse erano impiegate come filatrici.
La
legge islamica, la sharia, dava la possibilità di riceve anche una parte
dell’eredità famigliare, ma non sempre questo diritto era rispettato. Ci sono
documenti che attestano come, nel caso di eredità negata, la donna abbia
potuto far ricorso in tribunale per vedersi riconoscere il diritto. A volte
alle madri era anche concesso lasciare l’eredità vincolandola ad un’unica
figlia. Questo per evitare che le figlie di altre mogli del marito (essendo
consentita la poligamia) potessero impossessarsene.
8.4.7
Mumtaz Mahal
Bisogna,
infine, ricordare che non tutte le donne nell’India Moghul erano analfabete,
poiché sappiamo che alcune di esse furono infermiere, studiose e poetesse.
Molte
donne della nobiltà moghul furono anche valenti consigliere a livello
politico per i mariti. Tra loro la più celebre fu l’imperatrice Mumtaz Mahal,
ricordata per la sua incredibile bellezza, tale da “far vergognare anche la
luna”, ma anche per la sua attitudine alla pietà e alla grazia verso la
povera gente, i malati e gli emarginati. Dopo la sua morte a soli 38 anni, il
marito Shah Jahan nel 1632 fece costruire in sua memoria il grandioso Taj
Mahal, ad Agra, straordinario esempio di architettura moghul e tutt’oggi uno
dei monumenti più famosi e più visitati al mondo.
8.5 Africa
8.5.1
Società matrilineari
I
termini uomo e donna nelle lingue bantu parlate in parte dell’Africa a sud
del Sahara non ha lo stesso significato che nelle lingue occidentali. In
queste lingue per indicare una persona di sesso femminile è necessario sapere
se si è giunti ad alcune tappe fondamentali della vita come, ad esempio, la
maternità, la vecchiaia, i riti di passaggio per entrare nell’età adulta o se
ha ricevuto un’istruzione. In questo modo veniva a determinarsi il suo ruolo
e la sua autorità all’interno dello spazio familiare e dell’intera comunità.
Le categorie sociali femminili non godevano tutte della stessa importanza. Il
ruolo di madre o nonna, di sorella e figlia erano superiori, ad esempio, al
ruolo di moglie.
Le
società africane seguivano in gran parte la matrilinearità, cioè i figli
ereditavano la posizione sociale e i beni materiali dalla madre, anziché dal
padre. La famiglia è sempre stato il nucleo fondante dell’intera società e la
donna, al suo interno, per il fatto di essere colei che mette al mondo i
bambini e gestisce l’educazione e la casa, il membro più importante.
8.5.2
L’ influenza islamica
Dal
1500 la situazione politica, con guerre interne e tratta degli schiavi, fece
accentrare maggiormente il potere nelle mani degli uomini, creando una
struttura sociale in gran parte patrilineare. Anche l’influenza dell’Islam,
prima, e dell’Europa, dopo, contribuirono a far decadere l’autorità
femminile. Per secoli i mercanti islamici ebbero contatti con le popolazioni
africane, soprattutto nel nord, lungo le Rotte Transahariane e sulla costa
sud-orientale. Imperi africani, come quello del Mali e quello Songhai, o le
città-stato swahili sull’Oceano Indiano si erano col tempo convertiti alla
religione musulmana. Le donne africane non ebbero rilevanti svantaggi nel
convertirsi all’Islam: era una religione monoteista come molte all’interno
dell’Africa e inoltre, come dote quando si sposavano, ricevevano dal futuro
marito gioielli, oro e denaro. Questa dote, nella tradizione matrilineare
africana prevedeva la suddivisione fra tutti i membri della famiglia,
lasciando poco e niente alla sposa, mentre con l’arrivo dell’Islam la donna
poteva scegliere di tenere tutta la dote con sé.
8.5.3
L’influenza europea
La
tratta degli schiavi perpetrata per secoli dagli europei cristiani (XVI-XIX
secolo) creò terrore nella popolazione africana. Gli schiavi giunti nelle
piantagioni dei Caraibi o dell’America Latina venivano sfruttati fino a
morire. Quando il prezzo degli schiavi provenienti dall’Africa si alzò, fu
consentito loro di riprodursi. In questo modo le donne avevano più
possibilità di riposarsi rispetto agli uomini. Ma le schiave erano spesso
anche vittime di violenza da parte dei loro proprietari e i bambini, poiché
partoriti da donne schiave, erano considerati schiavi essi stessi, anche se
il padre era bianco europeo. In questo unico caso veniva rispettata la
matrilinearità.
Specialmente
in Brasile, a Cuba e ad Haiti, le donne riuscirono a mantenere vive le
religioni tradizionali africane nella fusione con i culti cristiani
(sincretismo) e ponendosi esse stesse come uniche sacerdotesse attraverso
rituali, ritmi e danze. In queste religioni si adoravano divinità e spiriti
che gli schiavi utilizzavano per senso di protezione e unità tra loro. In
Brasile si sviluppò il candomblé, a
Cuba la santeria e ad Haiti il vudù.
8.5.4
La tratta degli schiavi
L’impatto
della tratta degli schiavi creò conseguenze in Africa occidentale anche sulla
condizione delle donne. Vennero a formarsi gruppi diversi a seconda della
possibilità che si aveva di possedere schiavi. Vi erano, perciò, donne
proprietarie di schiavi che, per questo, aumentavano le proprie ricchezze, donne
comuni senza schiavi e le stesse schiave. Alcune donne africane (specialmente
in Senegal), chiamate Signares,
diventarono potenti mercanti di schiavi e le principali intermediarie con gli
europei. La ricchezza derivante dal potere economico fece accrescere anche il
loro prestigio, tanto che molte di esse contrassero matrimoni con i
trafficanti bianchi di schiavi.
Dopo
il XVIII secolo, con la Rivoluzione industriale la famiglia nucleare
tradizionale, basata sul padre e sul suo cognome, divenne l’unica accettata
dalle società occidentali. Questo modello, esportato con il colonialismo
dell’Ottocento, si impose in diverse zone dell’Africa sostituendo il modello
matrilineare e la famiglia come entità di cui fanno parte i vivi, ma anche
gli antenati e i componenti non ancora nati.
8.5.5
Nzinga, la regina che non si piegò agli europei
Nzinga
fu una donna di origini nobili che nel XVII secolo regnò su alcuni territori
nell’attuale Angola. L’Africa sud-occidentale era, a quell’epoca, una regione
geografica molto ambita dai Portoghesi soprattutto per il commercio di
schiavi attraverso l’Atlantico.
Allo
stesso modo delle coeve regine europee Elisabetta I d’Inghilterra e Cristina
di Svezia, Nzinga regnò da sola, senza consorte e senza figli. Convertitasi
al cristianesimo, riuscì a intrattenere importanti negoziati con gli europei
e ad evitare che il suo popolo subisse la schiavitù, come negli stessi anni
accadeva per le zone vicine al proprio regno.
Il
suo carattere forte viene ricordato da alcuni aneddoti tramandatisi nel tempo
di cui il più famoso è quello che la vide rifiutarsi di sedersi per terra,
durante le trattative con i Portoghesi. Questi ultimi usavano sedie, ma non
permettevano agli africani con i quali stipulavano contratti di fare
altrettanto. La superiorità europea sulla gente d’Africa doveva essere chiara
anche nella posizione dei rispettivi corpi. La tradizione vuole che Nzinga
non lo fece: chiese ad una sua serva di piegarsi sulle mani e sulle ginocchia
e si sedette sulla sua schiena. In questo modo stava comunicando ai
Portoghesi di non sentirsi affatto inferiore ad essi.
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